Siamo il Paese che detiene il record mondiale di siti dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco (più di 50); rappresentiamo agli occhi di tutto il mondo un “museo a cielo aperto”, la destinazione che ogni turista vorrebbe visitare almeno una volta nella vita; eppure oggi l’Italia stenta a rendere il suo immenso patrimonio di arte, paesaggi e cultura volano e forza propulsiva per il rilancio dell’economia nazionale.
È possibile un’inversione di tendenza? Quali sono le misure da assumere e quelle già avviate?
Sabato 7 febbraio 2015, all’interno del programma Settegiorni di Rai Parlamento, è andata in onda la puntata dal titolo “Il nostro oro, i beni culturali: a che punto siamo?”, con ospiti Franco Conte (Area Popolare), Michela Montevecchi (Movimento 5 Stelle), Flavia Nardelli (Partito Democratico), e in collegamento il presidente di Federculture, Roberto Grossi.
A partire dalle novità di carattere legislativo e fiscale introdotte dai recenti decreti “Valore Cultura” e “Art Bonus”, la puntata ha permesso da un lato di delineare in maniera chiara gli aspetti positivi, ma anche le problematiche relative ai provvedimenti presi in materia di cultura; dall’altro, sono state portate alla luce le criticità strutturali, programmatiche e gestionali che da sempre il nostro Paese sconta al momento di promuovere e valorizzare la ricchezza culturale di cui abbonda.
Una delle chiavi per il successo risulta essere una maggiore apertura verso i privati: grazie al provvedimento “Art Bonus”, i nuovi mecenati potranno usufruire di un credito d’imposta del 65% per tre anni sulle donazioni finalizzate a interventi di manutenzione, salvaguardia e restauro di beni culturali pubblici, da parte di persone fisiche e imprese.
“Una misura – interviene Roberto Grossi – che rappresenta senza dubbio un passo in avanti, ma che rischia di rivelarsi insufficiente qualora la platea di soggetti a cui è destinata restasse così ristretta. Non dimentichiamo – continua il Presidente – che gli incentivi fiscali si riferiscono ai beni di proprietà dello Stato, un insieme che non raggiunge le 500 unità, a fronte di quelli appartenenti agli Enti locali e ai privati che ne contano più di 4.500, tra monumenti e siti archeologici. Le agevolazioni fiscali, inoltre, andrebbero indirizzate anche a quei soggetti promotori di attività culturali, come già avviene per le fondazioni lirico-sinfoniche e i teatri di tradizione”.
Ci si chiede, a questo punto, cosa renda poco attrattivo il nostro Paese quando si tratta di investimenti da parte dei privati, italiani e stranieri: negli ultimi anni, ad esempio, il numero delle sponsorizzazioni è calato di più del 40% (dati X Rapporto Annuale Federculture). “Il soggetto che investe – spiega ancora Grossi – vuole avere garanzie sulla destinazione dei propri soldi”. Cosa che spesso un ente pubblico difficilmente riesce a garantire a priori.
Cambiamenti importanti coinvolgono anche il fronte dei musei: nel mese di gennaio 2015 è stato pubblicato dal MiBACT il bando di selezione per direttori dei 20 maggiori musei e siti archeologici italiani, esteso a personalità provenienti dall’estero e a candidati esterni alle Pubbliche Amministrazioni. Con riferimento alle tariffe, invece, il dicastero ha deciso di eliminare gli ingressi ridotti per i visitatori over 65, ufficializzando d’altro canto le “Domeniche al Museo”, ossia rendendo gratuita l’entrata nei musei statali la prima domenica di ogni mese ed estendendo l’orario di apertura fino alle ore 22 il venerdì.
Si auspica che tali provvedimenti riescano ad arginare l’emorragia di visitatori a cui il nostro sistema museale ha assistito negli ultimi anni: in Italia, infatti, vi è stata una perdita cospicua di visitatori, in assoluta controtendenza rispetto ai musei nel resto del mondo, dove si è registrato un trend in aumento.
È pure indiscutibile il successo di alcune mostre, validato dalle interminabili code alla biglietteria che residenti e turisti stoicamente affrontano per avere accesso alle opere (come per quella di Van Gogh a Palazzo Reale), o il modello virtuoso del Museo Egizio di Torino e della Venaria Reale. Fenomeni che di certo entusiasmano, ma che non devono rassicurare troppo ritardando quell’azione di innovazione nella gestione degli spazi museali che resta comunque urgente. Difatti, guardando alla classifica internazionale dei musei più visitati, capeggiata da Louvre, British Museum e Metropolitan di New York, bisogna attendere la 26esima posizione per vedere apparire finalmente un museo italiano, gli Uffizi di Firenze.
Confrontandoli con quanto avviene in Italia, i musei stranieri registrano migliori performance in relazione a diversi fattori: primo fra tutti l’autonomia gestionale e amministrativa che facilita, tra le altre cose, anche le attività di comunicazione e ricerca portate avanti dalle istituzioni museali. Un’ampia libertà di azione attira, di conseguenza, maggiori investimenti finanziari di lunga durata, che inducono anche il settore pubblico a offrire un sostegno più solido alle attività culturali. Ultima ma non meno importante, la selezione del personale dipendente, slegata totalmente dalle logiche statali.
Basterebbe, forse, dare una concreta ed efficace attuazione dell’art.115 del Codice dei Beni culturali e, quindi, attraverso forme di gestione più snelle, responsabilizzare le nostre istituzioni culturali, affidando loro il compito di valorizzare il proprio patrimonio di competenza. E poi, certo, costruire e rafforzare quelle reti territoriali che già in passato hanno rappresentato uno strumento straordinario per veicolare la cultura e riunire anche le più piccole comunità attorno agli spazi che alla cultura sono deputati e ispirati. Partire dal basso, dunque, e affidare a istituzioni, imprese, associazioni e a ogni singolo cittadino la co-gestione di ciò che, di fatto, appartiene a tutti.
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